Oriana Fallaci, Lettera a un bambino mai nato
Rizzoli, 1997
pp.104 Euro 4,65

Scritto nel 1975 in seguito alla perdita di un figlio, Lettera ad un bambino mai nato è un libro di non più di cento pagine, in cui Oriana Fallaci riesce a condensare il travaglio di una donna di fronte ad una maternità inaspettata. È un libro complesso, del quale il titolo suggerisce solo l'epilogo drammatico. Il lettore può esserne ingannato, e aspettarsi fin dalle prime pagine di assistere allo sfogo femminista di chi vuole far valere e imporre una posizione. In realtà non è così. Il libro ha il pregio di trattare un tema spinoso come quello dell'aborto lasciandolo però sullo sfondo, facendo emergere, invece, il tema centrale della maternità, che si snoda attraverso il dialogo di una donna con il bimbo che porta in grembo.

Seguendo questo filo conduttore, come fosse un cordone ombelicale, si ricostruisce la vita, le paure e le gioie di una donna, senza un volto e un nome preciso, incarnazione dei sentimenti di chi come lei ha dovuto affrontare la scelta di essere madre. Accettare questo ruolo non è semplice. Per una donna sola la scoperta di portare in grembo un figlio può essere un ostacolo. È così anche per la protagonista, che inizia un estenuante e doloroso monologo con il figlio — e soprattutto con se stessa — alla ricerca di una risposta.

È così che si scontra con la propria mente e soprattutto con il proprio cuore, che da subito la obbliga ad una scelta: accettare un figlio e impegnarsi a crescere con lui. Tra i due si instaura un legame particolare: da un lato ci sono affetto, amore, complicità, e dall'altro i litigi, contrasti e rimpianti di due esseri distinti ma uniti in un'unica persona. Ecco quindi la donna che si scopre madre nel seguire con la mente ogni minuscolo cambiamento del proprio ventre e del figlio, come per rendersi conto appieno della scelta fatta. Poi, subito dopo, la paura e la richiesta d'aiuto per continuare a scegliere la vita alla morte: «Come faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via? […] darei tanto bambino perché tu mi aiutassi con un cenno, un indizio». E il bimbo sceglie: non verrà mai al mondo, lasciando che il rimorso e l'angoscia portino inconsapevolmente la madre a seguire un destino altrettanto crudele, rinunciare alla propria esistenza.

Durante gli interminabili dialoghi, Oriana Fallaci riesce a fare emergere la paura di una donna di fronte alla propria vita e alla società. Attraverso altri protagonisti della sua vicenda, la realtà quotidiana viene sminuzzata e rivissuta attraverso l'ostilità del medico, la vigliaccheria del padre del bimbo, il femminismo dell'amica, la comprensione dei genitori, il sostegno della dottoressa, e la superficialità del datore di lavoro. Un intero mondo con cui confrontarsi. Ogni personaggio incarna un pezzetto di una verità mai univoca, che non esita a minare la certezza della scelta iniziale e a insinuare il dubbio.

Nel libro emerge così anche il filone etico. Un'interminabile sequenza di domande che la protagonista ossessivamente pone a se stessa: a quale scopo soffrire? Perché il diritto all'esistenza di un essere appena abbozzato deve prevalere su chi è già vita? E ancora, quando la vita è vita? Il libro di Oriana Fallaci non prende mai posizione ed è questo il suo miglior pregio. Pur anticipato dal titolo, l'attesa dell'esito finale crea suspense grazie alla capacità della scrittrice di affrontare un tema moderno e scottante senza imporre una chiave di lettura. Anzi, nel finale, la scrittrice sembra volere interrogare proprio il lettore.

Il nodo del libro infatti è il processo che la donna, dopo avere perso per sempre il figlio, si trova ad affrontare attraverso un sogno allucinato. Si trova proiettata all'interno di un tribunale, dietro le sbarre di una gabbia, mentre la propria coscienza viene processata. Tra i giudici, i sette protagonisti della sua vita e il figlio, ormai adulto. È allora che le posizioni si ribaltano: è quest'ultimo adesso ad avere tra le mani la vita della madre e a dovere emettere la sentenza.

A cura della Redazione Virtuale

Milano, 21 maggio 2002
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